BIOGRAFIA

Nacque a Milano intorno al 1250 dalla nobile famiglia dei Concoregio, originaria di Concorezzo, da cui il riferimento.

La sua giovinezza è a noi ignota Lo si incontra, a Bologna del 1286, università famosa per gli studi giuridici. In quell’anno, infatti, il Comune di Lodi invitò il C., nella sua qualità di giurista, a tenere un corso di diritto a partire dall’ottobre di quello stesso anno. Non è chiaro se a quell’epoca egli avesse il titolo di “magister”, che otterrà in seguito: certamente non insegnava nello Studio bolognese. Godeva comunque fama di buon giurista. A Lodi risiedeva ancora nel maggio del 1287, come attesta un suo parere legale al vescovo in tale data, ma non si sa per quanto tempo si sia trattenuto in quella città.

Qualche anno più tardi, forse dall’inizio del 1290, egli era al seguito del cardinale milanese Michele Peregrosso, che lo iniziò alla carriere diplomatica, avvicinandolo al mondo della Curia pontificia. Come e perché Rinaldo fosse giunto alla corte del cardinale rimane a noi ignoto.

Nel 1293 seguì il cardinale in una missione Oltralpe, e nel 1295 era ad Anagni quando morì il Peregrosso, che lo ricordò molto generosamente nel suo testamento. Entrato a quell’epoca in amicizia col nipote del pontefice Bonifacio VIII, il cardinale Benedetto Caetani, il C. lo seguì a Roma, dove divenne presto cappellano del pontefice e ottenne nuovi benefici oltre a quelli che il Peregrosso gli aveva già procurato.

In un documento pontificio del 22 sett. 1295, il C. figura con tutti i suoi titoli: maestro di diritto, suddiacono e cappellano pontificio, commensale domestico della S. Sede, cappellano del cardinale Benedetto Caetani, canonico di Laon e di San Martino di Bollate. Quanto al canonicato di Laon (nella diocesi di Soissons, in Francia) è probabile che il C. ne fosse investito durante il viaggio compiuto col Peregrosso.

Il 18 ott. 1296 Bonifacio VIII nominò Rinaldo vescovo di Vicenza. Dal capitolo di quella città era però stato eletto Giacomo Bissari, probabilmente su istanza del Comune, che desiderava un uomo malleabile, come in effetti il Bissari si dimostrò, assolvendo i Bassanesi dalla scomunica nella quale erano incorsi l’anno precedente. Il C., tuttavia, con l’appoggio papale, già all’inizio del 1297 cominciò a governare la diocesi di Vicenza per mezzo di un procuratore (Goffredo da Lodi), rimanendo intanto a Roma, dove seguì il processo ivi in corso tra Comune e vescovo di Vicenza per il possesso di alcuni castelli.

Bonifacio VIII lo nominò poi esecutore del lodo arbitrale emanato il 27 giugno 1298, relativo alla questione sorta tra Filippo IV il Bello di Francia ed Edoardo I d’Inghilterra a proposito della Guienna, vasta provincia francese della Aquitania e feudo dei Plantageneti sotto la sovranità di Filippo. L’intervento del papa era giustificato dalla sua intenzione di operare una pacificazione in vista di una crociata e soprattutto dal fatto che la guerra fra i due re era pagata con contributi straordinari del clero. Rinaldo. anche per la sua precedente esperienza francese, sembrava adatto a condurre quella legazione; ed infatti in pochi mesi riuscì a far incontrare Filippo ed Edoardo, e alla loro presenza, a Montreuil-sur-Mer, il 23 giugno 1299 pubblicava il lodo di Bonifacio. Ma la missione francese riservava a Rinaldo nuovi incarichi, come la tutela del re di Scozia, l’irrequieto Giovanni Balliol (faccenda che il nostro risolse abbastanza presto avvalendosi dell’opera di due procuratori) e il compito di raccogliere un contributo speciale del clero francese per finanziare le lotte di Bonifacio VIII contro i Colonna: prima del 20 genn. 1300 il C. consegnò la notevole somma di 13.000 fiorini d’oro all’incaricato della società fiorentina degli Spini.

Ritornato a Roma nel gennaio 1301, Rinaldo si occupò di nuovo del processo vicentino, ivi celebrato, con un parere scritto che mise in notevole difficoltà gli avversari: più tardi, sopraggiunti impegni gli impedirono ancora una volta di dedicarsi direttamente alla sua diocesi. Poiché Carlo d’Angiò, nominato conte di Romagna nello stesso anno, non poteva risiedere stabilmente in quella regione, il papa nominò Rinaldo suo vicario. Vale la pena ricordare che la Romagna era terra di signori e signorotti che erano costantemente in guerra gli uni contro gli altri armati e la signoria papale era solo teorica, nonché costantemente ostacolata dagli interessi locali. Rinaldo, che aveva avuto la possibilità di conoscere il Carlo fratello in occasione della legazione francese, fece ingresso ufficiale nella provincia il 22 apr. 1302 e pose dimora in Forlì. Circa un mese più tardi divenne anche rettore “in temporalibus” della provincia ravennate ed in questa veste tentò opera di pacificazione in quella zona da tempo agitata dai contrasti tra le potenti famiglie cittadine.  Purtroppo, cercando di sedare i contrasti fra le fazioni forlivesi, venne aggredito riportando ferite gravi (“ad mortem”) dalle quali guarì in qualche mese in modo giudicato dagli agiografi miracoloso. L’azione di Rinaldo non ottenne però risultati duraturi, tanto più che i nemici del Papato, incoraggiati dall’atteggiamento di Filippo il Bello, crescevano di forze. Di quell’epoca sono i fatti di Anagni (7 settembre) e la successiva morte di Bonifacio VIII, l’11 ott. 1303, che segnò anche il tracollo dell’autorità pontificia in Romagna.

Poco prima di morire, Bonifacio aveva avocato a sé il diritto di eleggere i vescovi di Ravenna, nel tentativo di sottrarre le elezioni a ingerenze laiche. Il decreto divenne operante quando, scomparso l’arcivescovo Obizzo Sanvitale (12 sett. 1303), il capitolo ravennate, forse ignaro della decisione papale, si riunì, senza però giungere a un accordo: una parte del clero elesse Leonardo Fieschi, un’altra, la maggioritaria, Rinaldo. La questione venne risolta il 19 novembre dal nuovo papa Benedetto XI il quale confermò Rinaldo arcivescovo di Ravenna.

Il trasferimento ufficiale è del dicembre 1303, ma per ragioni ignote Rinaldo arrivò a Ravenna solo nell’ottobre del 1305.  La prima data certa della sua presenza a Ravenna (probabile dal 15 ott. 1305) è quella di un documento da lui emanato il 27 apr. 1306. Da quel momento, si dedicò alla vita della sua diocesi ed in questa nuova veste seppe sfruttare abilmente la lunga esperienza diplomatica maturata precedentemente; poté così lavorare per una proficua riforma dei costumi del clero, delle comunità religiose e dei fedeli della sua provincia.

Anche se ancora attratto dalla vita politica (intervenne nella crisi di Ferrara, seguì con interesse la discesa in Italia di Enrico VII di Lussemburgo), il C. si dedicò soprattutto alla vita pastorale, richiamando in vita istituti ormai dimenticati, come quello delle visite e quello dei sinodi provinciali.

Le visite del vescovo nelle parrocchie della sua diocesi permettevano una conoscenza concreta delle necessità locali; il C. ne fece abbondante uso, specie nelle zone di Bologna e di Argenta, stabilendo per esse anche un minuzioso rituale. Tale iniziativa fu ampiamente lodata dal Rossi e dall’agiografo Nicolò da Rimini. Ma più importanti per lo storico sono i sinodi, o concili, provinciali, che il nuovo arcivescovo convocò frequentemente e che costituiscono una parentesi nella vita della Chiesa di Ravenna, poiché, dopo quelle di Rinaldo, occorrerà attendere gli effetti del concilio di Trento, che ne generalizzò l’uso, per assistere ad un nuovo sinodo provinciale, convocato nel 1568 da Giulio Della Rovere.

Si ha notizia di cinque sinodi tenutisi per volere del C.: nel 1307 a Ravenna, nel 1309 a Bologna, nel 1311 a Ravenna, nel 1314 ad Argenta e nel 1317 a Bologna; degli ultimi tre sono conservate anche le costituzioni. Anche quando convocati per motivi straordinari (come per il processo dei templari nel 1311), la preoccupazione costante di quelle riunioni fu sempre la riforma della Chiesa ravennate. I decreti emanati in quelle occasioni non sembrano aver avuto piena applicazione concreta, poiché continuarono, le consuete lamentele sulla situazione della diocesi e sui costumi del clero; certamente, però, costituirono la base giuridica su cui poggiare una serie di proficui interventi nelle singole comunità. Fra le riforme volute da Rinaldo, qualcuna merita particolare attenzione, come quelle riguardanti la formazione del clero e la predicazione. L’ignoranza del clero era paurosa; Rinaldo aveva potuto rendersene conto facendo l’esaminatore “de literatura” presso la Curia romana. Per ovviare a tale carenza, nei sinodi provinciali si stabilì che per diventare preti occorrevano, oltre, naturalmente, ad una provata integrità di vita e all’età minima di venticinque anni, una discreta cultura latina e la conoscenza della liturgia, del canto sacro e dell’amministrazione dei sacramenti. Per favorire, poi, la vicinanza e i legami fra i chierici, il C. istituì la Congregazione o Convento dei parroci, che ancor oggi esiste, e che aveva, fra gli altri, anche il compito di esaminare gli aspiranti al sacerdozio. Prescriveva, inoltre, che la predicazione fosse frequente ed in lingua volgare, per venire incontro alle esigenze del popolo. La sua opera di riforma fu altre volte più puntuale, rivolgendosi alla correzione di particolari comportamenti, sempre nell’ottica di un più vasto piano di risanamento spirituale. Così, ad esempio, egli proibì ai fedeli la permanenza notturna nella chiesa di S. Giovanni Evangelista durante l’annuale festa e tentò riforme interne ai monasteri della provincia, fra i quali, in particolare quello camaldolese di Classe, cui impose, tra l’altro, di rimettere in efficienza lo ospedale per raccogliere pellegrini, poveri o malati, sostenendo che “bona ecclesiarum pauperum sunt”.

Nel quadro del processo intentato all’Ordine dei cavalieri del Tempio da papa Clemente V, uomo debole che cedette alle pressioni di Filippo il Bello, l’inquisizione ai membri di quell’Ordine nell’Italia settentrionale venne affidata a tre grandi inquisitori, fra i quali era Rainaldo nella sua qualità di arcivescovo. Radunatisi a Bologna nel settembre 1309, i tre incaricati delle indagini non agirono però con la solerzia desiderata da Clemente V, e si limitarono a dividersi i compiti. A Rainaldo venne affidato lo incarico di interrogare i cavalieri di Romagna. Da quel momento il processo ravennate acquistò caratteristiche peculiari, che lo differenziano da tutti gli altri, rappresentando la migliore antitesi ai processi francesi, e in particolare parigini. L’inchiesta fu infatti condotta, per volere del nostro, con criteri di mitezza, alla ricerca della verità e senza il fine, altrove perfino scoperto, di impossessarsi dei beni dello Ordine. Alcune prese di posizione del C. furono molto coraggiose, come la decisione di non imprigionare gli imputati, concedendo loro la libertà provvisoria, e soprattutto quella di non sottoporli alla tortura, cui si ricorreva, invece, normalmente in tutti gli altri processi contro i templari. La discussione su questo punto si svolse nel concilio provinciale del 1311, a Ravenna. Nella prima sessione, fra il 13 e il 16 gennaio, si affrontarono soltanto i preliminari, e nella seconda, fra il 17 e il 21 giugno, ci si pose la fondamentale questione dell’innocenza dei cavalieri del tempio. Due correnti erano rappresentate all’interno del sinodo: quella colpevolista, guidata dall’inquisitore domenicano, e quella innocentista, guidata dall’inquisitore francescano. Soprattutto per opera del C. il concilio giunse, nella seduta del 3 giugno, a sostenere che dovevano considerarsi innocenti non soltanto coloro “qui metu tormentorum confessi fuissent, si deinde eani confessionem revocassent”, ma anche coloro i quali “revocare, huiusmodi tormentorum metu, ne inferrentur nova, non fuissent ausi”. Un esplicito rifiuto ed una implicita condanna, dunque, di ogni sistema di coercizione per ricercare la verità. Il processo ravennate si concluse con la dichiarazione di innocenza di tutti i templari inquisiti, decisione che non piacque a Clemente V, molto prontamente informato, forse dall’inquisitore domenicano, dei risultati cui si era giunti. Pochi giorni dopo la conclusione del sinodo, il 27 giugno, il papa scrisse agli inquisitori dell’Italia settentrionale e, nella bolla Dudum ad eliciendum, chiese loro di rifare il processo con minore prudenza e minore “negligenza”, utilizzando la tortura e giustificandone l’uso in base ai “sacri canoni”. Ma, mentre l’arcivescovo di Pisa ed il vescovo di Firenze, fino ad allora abbastanza miti per l’esempio dell’arcivescovo di Ravenna, obbedirono prontamente all’invito papale, e i processi in Toscana furono ripresi con abbondante uso della tortura, il C. non si lasciò intimorire dalle pressioni del pontefice, e si attenne alle decisioni del concilio provinciale di Ravenna.

Il processo contro i templari si concluse nel concilio generale di Vienne, inauguratosi il 16 ott. 1311, al quale, probabilmente, partecipò Rinaldo. Clemente V, pur dopo molte esitazioni, condannò l’Ordine, abolendolo per motivi insieme religiosi, politici ed economici, con la bolla Vox in excelso pubblicata il 3 apr. 1312, ma senza l’ausilio di alcuna prova materiale. E che non la Chiesa ma il re di Francia fosse in realtà il promotore di quel processo, fu dimostrato dal fatto che il giudizio sui Templari venne affidato nel dicembre 1312 ad una commissione nominata esclusivamente da Filippo il Bello.

Rinaldo, di nuovo in Italia dall’estate del 1312, tornò ad occuparsi della sua opera di riforma, estraniandosi sempre più dalla vita politica attiva. Il nuovo papa Giovanni XXII, dalla lontana Avignone, tendeva a valorizzare la figura del rettore “in spiritualibus”, cui affidò anche molti poteri dell’arcivescovo, come la giurisdizione dei metropoliti e dei tribunali ecclesiastici e d’appello. Tale politica finiva per togliere molta autonomia alle diocesi: ad essa il C. non volle, o non seppe, opporsi. Risiedeva, dal 1314, quasi stabilmente nel castello di Argenta (nei pressi di Ferrara), ove egli continuò a provvedere alla riforma del clero fino alla sua morte, sopraggiunta il 18 agosto del 1321. Meno di un mese dopo sarebbe morto Dante.

Fu sepolto a Ravenna, nel bellissimo sarcofago paleocristiano del V secolo ancor oggi visibile in fondo al transetto di destra della cattedrale, quella basilica Ursiana che egli stesso aveva fatto restaurare qualche anno prima (l’inaugurazione fu nel 1314) meritando un posto nel grande dipinto d’altare, vicino al fondatore Urso (il quadro, oggi conservato in un altare laterale, potrebbe rappresentare la consacrazione della chiesa di Santa Chiara. Vista la tipologia del modello della chiesa offerto.

Il suo culto, testimoniato già da un messale del 1454 che lo festeggia il 18 agosto, e approvato da Pio IX il 15 genn. 1852, ha origini molto antiche. Nell’agosto 1326 il nuovo arcivescovo di Ravenna, Aimerico di Chaluz, raccolse nell’Ursiana quanti sostenevano aver ricevuto grazie dal C., e di quel processo fu redatto verbale. In un documento del 1340 il C. è detto beato, e con tale appellativo viene chiamato da Nicolò da Rimini, che scrisse una sua biografia nel 1411, pubblicata negli Acta Sanctorum e in Italia sacra.

Le sue reliquie vennero donate alla chiesa di Concorezzo nel 1908 dall’arcivescovo di Ravenna Pasquale Morganti che erroneamente assegnò a questo paese la nascita di Rinaldo.

E’ improbabile che Rinaldo e Dante si frequentassero, ma ci piace immaginarli immersi nel dialogo; due giganti del pensiero in una piccola città.

(documentazione tratta e modificata dalla voce omonima dell’enciclopedia Treccani)